L’UOMO E IL CANE di Carlo Cassola, 1977
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Questo breve romanzo racconta di Jack, abbandonato dal padrone, che vaga tra le colline toscane in cerca di nuovi affetti.
In una campagna popolata da gente arida e indurita, il cane è abbandonato dal suo padrone perché ha ucciso una gallina del vicino, e capisce cosa significhi non essere al proprio posto nel mondo.
Cassola lo segue nel suo viaggio; con lo sguardo del cane, anche quello dello scrittore si posa sul mondo, interrogandolo sulla sua ferocia.
Questo racconto è un apologo sul desiderio (che è sia del cane sia dell’uomo, entrambi incapaci di vivere l’avventura della libertà) di restare legati a una catena.
Cassola avverte che l’uomo, per timore o debolezza, anela alla sudditanza e preferisce all’indipendenza la servitù, ammonendolo: non si deve rischiare di perdere la libertà, bene supremo, per correre dietro a un padrone che può rivelarsi spietato.
Questo è un libro particolare che fu avvertito come anacronistico e aspramente contestato, anche se si aggiudicò il premio Bagutta nel 1978.
Cassola qui passa dal realismo al simbolico senza che il lettore se ne accorga.
Crede di star leggendo dalla prima all’ultima pagina un racconto realistico e invece man mano che si inoltra nella lettura sconfina nella metafora.
Questo romanzo è scritto in una forma asciutta e con un tono costantemente risentito, tanto da apparire una durissima e provocatoria metafora dell’esclusione.
“Il cane e l’uomo sono un binomio indissolubile. Il primo non esiste senza il secondo. Nessun cane rispettabile appartiene solo a se stesso. È spiegabile, quindi, che Jack soffrisse di non avere un padrone”.
Questo racconto mi ha colpito particolarmente per la capacità dell’autore di interpretare la psicologia canina, descrivendoi il pensiero che sostiene Jack nel suo vagabondaggio, cosa non comune a quei tempi utilitaristici in cui mancavano la conoscenza e il rispetto del mondo animale.
Il cane non sa e non può e mettere in discussione i fondamenti della società che lo circonda, la logica dei padroni, come spesso capita agli esclusi:
Jack è psicologicamente complice dei suoi oppressori, si limita a desiderare la reintegrazione proprio in quegli schemi di convenienza che hanno determinato il suo dramma personale.
“I cani, se lo vuoi sapere, aspirano tutti ad avere un padrone. Cani che amino la libertà più del padrone non se ne sono ancora visti. Anche se il padrone fa far loro una cattiva vita.”
Alla fine Cassola non sta parlando più solo di uomini e cani ma di chi ha un posto nel mondo, magari anche scomodo, e di chi invece lo perde o è radicalmente fuori.
Non è un casoche questo racconto sia ambientato nel periodo dell’Italia fascista, quando in milioni si consegnarono mani e piedi ad un regime dittatoriale, anziché combattere, e rischiare, per la libertà e la democrazia.
Nonostante l’antropomorfismo in cui facilmente ci ritroviamo, la circostanza che il protagonista sia un cane rende la situazione più disperata: perché un cane non è un uomo, è natura, non è ispirato nel suo comportamento dall’interesse o dalla crudeltà gratuita.
Jack pensa sempre che compiacere voglia dire essere alla fine accettato, anche in una posizione gerarchica subordinata, come accade ad esempio nel branco di lupi, ma l’uomo non ragiona così, ha i suoi interessi e le sue passioni, e non sempre lusinghe e sottomissioni servono.
Non mi è piaciuto particolarmente il modo in cui è stato scritto, forse troppo semplicistico, mentre, anche se la trama è minima, mi sono piaciute le considerazioni e le riflessioni che induce.
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Vicla Sgaravatti
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