IL TESTAMENTO DEL CANE di EUGENE O’NEILL (ma vale anche per un gatto)
Ricorrono oggi i sessantacinque anni dalla morte di Eugene O’Neill, scrittore e drammaturgo statunitense.
Era nato a New York il 16 ottobre 1888 e morì a Boston il 27 novembre 1953.
Vinse il premio Nobel per letteratura nel 1936 e fu una figura fondamentale del teatro negli USA.
Dal 1929 al 1940 ebbe un cane Dalmata, acquistato durante un viaggio in Francia. Il suo nome era Silverdeen Emblem, ma veniva chiamato affettuosamente Blemie.
O’Neill amava teneramente questo cane, e, poco prima che Blemie morisse, scrisse il suo testamento. Era un gesto d’amore nei confronti della moglie e un tentativo di consolarla per l’imminente dolore per la perdita del loro cane, che entrambi consideravano come un figlio, “l’unico figlio riuscito” , “il figlio più gradevole e divertente, il più grato”.
Il testo è molto commovente, tenero, ma anche ironico e sobrio: dà la parola alla mente di un cane, alla sua semplicità, alla sua saggezza.
Ne riporto una parte, trovo che queste parole ci possano portare a una riflessione sulla vita e sulla morte dei nostri cari animali, cani o gatti o altro che siano.
(…)Chiedo al mio Padrone e alla Padrona di ricordarmi sempre, ma di non piangermi a lungo.
Nella mia vita mi sono sempre sforzato di essere una consolazione per loro nei momenti tristi ed un motivo di gioia in più nei momenti felici.
E’ doloroso per me pensare che morendo causerò loro un dispiacere. Preferisco invece che ricordino che, mentre nessun cane ha avuto una vita più felice (e devo questo al loro amore e alla cura che hanno avuto per me), adesso – divenuto cieco, sordo, zoppo, con l’odorato indebolito, al punto che un coniglio potrebbe venirmi sotto il naso senza che me ne accorga – il mio orgoglio ha subito una grave, cocente umiliazione.
Sento che la vita mi sta punendo per averla tirata tanto per le lunghe. E’ ora che mi congedi, prima che diventi troppo malato, e di peso a me stesso e a coloro che mi vogliono bene.
Sarà doloroso lasciarli, ma non sarà doloroso morire. I cani non hanno paura della morte come gli uomini. Noi l’accettiamo come parte della vita, non come qualcosa di estraneo e di terribile che distrugge la vita (….)
Ma la pace, almeno, è sicura. Pace e lungo riposo per il vecchio stanco cuore, per la testa e per le membra, ed il sonno eterno nella terra che ho amato tanto. Forse dopo tutto, questa è la cosa migliore (…)
Un’ultima preghiera devo rivolgere onestamente.
Una volta ho sentito la Padrona dire: «Quando Blemie sarò morto, non prenderemo altri cani. Gli voglio talmente bene, che non potrei voler bene ad un altro.»
Vorrei allora chiederle, per amor mio, di prenderlo un altro cane. Mi conforterebbe invece il pensiero che, avendo avuto me in famiglia, ora non potrebbe più vivere senza un cane!
Non ho mai sofferto di grette gelosie. Anzi, ho sempre sostenuto che la maggior parte dei cani sono buoni (anche il gatto, quello nero, al quale permetto di dividere con me il tappeto del salotto, la sera, e le cui manifestazioni affettive avevo tollerato con spirito accomodante e, nei rari momenti di buona disposizione sentimentale, avevo perfino corrisposto!)
Alcuni cani, ovviamente, sono migliori di altri.
I Dalmata, naturalmente, lo sanno tutti, sono i migliori. Perciò suggerisco un Dalmata come mio successore.
Difficilmente potrà essere così ben educato e compito o distinto e di bella presenza come ero io ai miei tempi. Ma il Padrone e la Padrona non possono pretendere l’impossibile.
Sono però certo che lui farà del suo meglio e che anche i suoi difetti, pure se inevitabili, aiuteranno, grazie al confronto continuo, a tener vivo il ricordo di me.
A lui lascio il mio collare ed il guinzaglio ed il cappottino e l’impermeabile, fatti su misura per me nel 1929 da Hermes a Parigi. Certo non li indosserà con la distinzione che mi caratterizzava quando passeggiavo per Place Vendome e dopo, per Park Avenue, tra la gente che mi guardava ammirata, ma sono sicuro che farà di tutto per non apparire un comune cane provinciale e goffo.
Qui alla fattoria potrà guadagnarci, sotto certi aspetti. Credo che sarà capace di tenere dietro ai conigli meglio di quanto non sia stato capace io in questi ultimi anni.
E, malgrado tutti i suo difetti, con il presente gli auguro tutta la felicità che so si meriterà nella mia vecchia casa.
Un’ultima parola di addio.
Caro Padrone, e cara Padrona … Se qualche volta verrete a visitare la mia tomba, dite a voi stessi con rimpianto, ma anche con felicità interiore al ricordo della mia lunga vita felice trascorsa con voi: “Qui giace uno che ci ha voluto bene e al quale abbiamo voluto bene.” Per quanto profondo possa essere il mio sonno, vi sentirò, e la forza della morte, per quanto grande possa essere, non potrà impedirmi di agitare con gratitudine la coda.”
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