COME NACQUE LA FAVOLA DI NATALE DI GIOVANNI GUARESCHI?
La favola di Natale è un racconto dello scrittore Giovanni Guareschi. Fu scritta nel dicembre 1944 durante il periodo di prigionia e venne raccontata per la prima volta la sera della Vigilia di Natale, sempre dello stesso anno, nella sua baracca nel campo di prigionia.
Questo racconto mi è molto caro perché per un certo periodo Guareschi fu compagno di prigionia di mio Padre, che era stato catturato l’8 settembre 1943 e liberato nel 1945, condividendo le sofferenze, i patimenti …ma anche le speranze.
Qui vi riporto le parole dello stesso Guareschi che spiegano la nascita di questa favola.Nel post successivo la potrete leggere.
“Questa favola è nata in un campo di concentramento del Nordovest germanico, nel dicembre del 1944, e le muse che l’ispirarono si chiamavano Freddo, Fame e Nostalgia.
Questa favola io la scrissi rannicchiato nella cuccetta inferiore di un “castello” biposto, e sopra la mia testa c’era la fabbrica della melodia. Io mandavo su da Coppola versi di canzoni nudi e infreddoliti, e Coppola me li rimandava giù rivestiti di musica soffice e calda come lana d’angora. “Adesso la nonna racconta una fiaba al bambino per farlo addormentare”, dicevo alle assicelle del soffitto. Oppure: “Adesso la nonna, il bambino e il cane montano in treno e fanno un lungo viaggio nella notte.” E le muse ispiratrici salivano al piano superiore e dal soffitto piovevano semi biscrome.
Si avvicinava il secondo Natale di prigionia: Fame, Freddo e Nostalgia. Tra i sei o settemila ufficiali prigionieri nel lager c’erano professionisti e dilettanti di musica e di canto. Qualcuno era riuscito a salvare il suo strumento, qualche strumento lo prestarono i prigionieri francesi del campo vicino. Coppola concertò le musiche e istruì orchestra, coro e cantanti. I violinisti non riuscivano a muovere le dita per il gran freddo; per l’umidità i violini si scollavano, perdevano il manico. Le voci faticavano a uscire da quella fame vestita di stracci e di freddo. Ma la sera della vigilia, nella squallida baracca del “teatro”, zeppa di gente malinconica, io lessi la favola e l’orchestra, il coro e i cantanti la commentarono egregiamente, e il “rumorista” diede vita ai passaggi più movimentati.
La nostalgia l’hanno inventata i prigionieri perché in prigionia tutto quello che appartiene al mondo precluso diventa favola, e gente ascolta sbalordita qualcuno raccontare che le tendine della sua stanza erano rosa. In prigionia anche i colori sono una favola, perché nel lager tutto è bigio, e il cielo, se una volta è azzurro, o se un rametto si copre di verde, sono cose di un altro mondo. Anche la realtà presente diventa nostalgia. Noi pensavamo allora alle cose più umili della vita consueta come meravigliosi beni perduti, e rimpiangevamo il sole, l’acqua, i fiori come se oramai non esistessero più: e per questo uomini maturi trovarono naturale che io, per Natale, raccontassi loro una favola, e giudicarono originalissimo il fatto che, nella favola, un uomo s’incontrasse con sua madre e col suo bambino. “Che fantasia”, dicevano. “Come fai a pensare tutte queste strane faccende?” E la banalissima vicenda interessava i prigionieri forse più ancora del contenuto polemico della fiaba stessa. Perché La favola di Natale ha anche un contenuto polemico che le illustrazioni rendono oggi evidente anche al meno avvertito dei lettori, sì che io potrei premettere alla fiaba: “I personaggi di questo racconto sono tutti veri e i fatti in esso accennati hanno tutti un preciso riferimento con la realtà.” La “realtà” era tutt’intorno a noi, e io la vedevo seduta a tre metri da me, in prima fila, vestita da Dolmetscher: e quando il “rumorista-imitatore” cantava con voce roca la canzoncina delle tre Cornacchie e il poliziotto di servizio sghignazzava divertito, io morivo dalla voglia di dirgli che non c’era niente da ridere: “Guardi, signore, che quella cornacchia è lei.”
“Io vi racconterò una favola, e voi la racconterete al vento di questa sera, e il vento la racconterà ai vostri bambini. E anche alle mamme e alle nonne dei vostri bambini, perché è la nostra favola: la favola malinconica d’ognuno di noi”.Io, la sera della vigilia del ’44, conclusi con queste parole la premessa: ma il vento avrà sentito? O, se ha sentito, sarà riuscito poi a superare i baluardi della censura? O, lungo la strada, avrà perso qualche periodo? Ci si può fidare del vento in un affare così delicato? Di qui l’idea di stampare la fiaba: il papà ex internato potrà così raccontarla al suo bambino, e da queste povere parole che sanno di fame, di freddo e di nostalgia il bambino capirà forse quel che il papà soffriva, lassù, nei desolati campi del Nord. E se non capirà il bambino, capirà la mamma. E – ripensando alle ultime parole della favola – anche per un mio orgoglietto personale:
«[…] E se non v’è piaciuta – non vogliatemi male: ve ne dirò una meglio – il prossimo Natale, e che sarà una favola – senza malinconia; C’era una volta – la prigionia…»
Ho mantenuto la promessa e pago il mio debito: eccovi la favola. C’era una volta un prigioniero…
Come già scritto, potrete leggere la favola nel prossimo post.
Fonte :http://paolaserra97.blogspot.it/2014/12/la-favola-di-natale-giovannino-guareschi.html
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