Questo film è basato su una storia vera.
Nel febbraio del 1958 alcuni ricercatori scientifici giapponesi dovettero lasciare la loro base al Polo Sud, senza la possibilità di portare con loro i quindici cani da slitta, di razza Karafuto-Ken (Sakhalin Husky).
Erano convinti che presto qualcuno sarebbe tornato, e si sarebbe preso cura di loro. Purtroppo non fu così, e i cani restarono legati a una catena sul ghiaccio, con cibo per pochi giorni, abbandonati al loro destino.
L’abbandono dei cani, per quanto necessario, provocò proteste in Giappone; l’associazione animalista JSPCA promosse una petizione per il loro recupero.
Circa un anno dopo, a gennaio 1959, uno degli scienziati della spedizione tornò al Polo Sud con una nuova spedizione, pensando di trovare i suoi amati cani morti. Fu grande la sua sorpresa nel trovarne due ancora vivi: i fratelli Taro e Jiro. Sette invece furono trovati morti ancora incatenati, mentre degli altri sei non furono ritrovate le tracce.
Non si sa come i due cani abbiano potuto sopravvivere al rigido inverno del Polo Sud. Forse si sono alimentati cacciando in branco foche e pinguini. Nelle dispense del campo era rimasto del cibo, ma fu ritrovato intatto.
Jiro visse fino alla quinta spedizione e morì di morte naturale nel luglio del 1960. Il suo corpo imbalsamato si trova in esposizione nel Museo Nazionale di Scienze a Ueno, Tokyo, di fianco a quello di Hachiko.
Taro invece è morto a quindici anni, nel 1970. Trascorse i suoi ultimi anni a Sapporo, vivendo all’ Hokkaido University, il suo corpo imbalsamato è conservato al Museo di Tesori Nazionali nei Giardini Botanici dell’ Hokkaido University a Sapporo.
Questa è la storia da cui è stato tratto il film, per cui ci sono voluti tre anni di riprese e che è stato campione d’incassi in Giappone nel 1983.
Il film si presenta come un opera a metà tra documentario e fiction.
La prima parte è ambientata completamente in Antartide, con lunghe inquadrature del paesaggio e la voce fuori campo, ed è prevalentemente documentaristica. Nella seconda parte si alternano scene di finzione (ambientate in Giappone, con i protagonisti umani) e scene simil-documentaristiche (in Antartide, con i cani come protagonisti), con voce fuori campo e didascalie a commentare le azioni.
La splendida musica di Vangelis (utilizzata in seguito anche come sottofondo a documentari naturalistici) fa da colonna sonora solo alle scene ambientate in Antartide mentre è totalmente assente nelle scene in Giappone.
Una debolezza del film è la sceneggiatura che sembra accessoria, come abbozzata, il fatto è che viene soverchiata dalla vera materia filmica: le superbe riprese grandangolari, illuminate dalle luci incorporee dell’aurora boreale e il linguaggio degli animali, fatto di segni, di suoni ma non di parole. A parte le musiche e le ambientazioni, il film risulta molto lento; manca una vera storia, un racconto, mentre le lunghe sequenze di corsa dei cani e di contemplazione del paesaggio possono annoiare. La tensione emotiva del film è in parte vanificata dalla mancanza di una controparte umana convincente.
Il fascino maggiore del film è quello di farci conoscere questo bianco continente misterioso, con la sua bellezza e pericolosità.
E’ un film fatto di suoni e rumori, innumerevoli sfumature del bianco che sprigionano luce, immagini di rara intensità emotiva, in un rapporto d’integrazione costante fra piano visivo e musicale. Infatti, la colonna sonora di Vangelis è fatta di brevi frasi melodiche e ariosi arrangiamenti sinfonici e commenta il racconto drammatico in modo grave e profondo, dando a una storia vera la tonalità dolente di scelte sonore che traducono il sentimento doloroso in sensazione quasi tattile.
Risulta interessante il contenuto, e il messaggio.
Questa è la storia di un tradimento, non voluto, pieno di attenuanti, di sensi di colpa successivi, di bisogno di riscatto e compensazione.
Quei cani sono stati abbandonati dall’uomo, non è avvenuto il contrario: un vero tradimento, vile come tutti i tradimenti.
La pena nel vedere la loro sorte è infinita, una regia misurata e attenta li segue nel tentativo, disperato e perdente, di sopravvivere, la natura è matrigna con loro non meno che con l’uomo.
Il regista Koreyoshi Kurahara fa ben comprendere, oltre alla ricerca della sopravvivenza, la varietà dei loro sentimenti, l’incredulità di essere rimasti soli. Lasciati legati, perché non possano scappare, con il collare stretto più del solito al collo per rendere più complicata la fuga e condannati all’impotenza. Proprio l’uomo che più amavano, con cui giocavano, quello che avevano salvato e con cui avevano corso più volte li ha abbandonati. L’uomo che si inchinava di fronte a loro dicendo: “tu sei il mio padrone”.
La forza evocativa delle scene è alimentata dal realismo di riprese fortemente suggestionanti, così emotivamente forti da creare nello spettatore un’empatia profonda con un mondo animale capace di devozione totale, sofferenza estrema e perdono insperato, lasciando gli spettatori a interrogarsi circa la sorte dei cani utilizzati per girare le scene.
Didascalie assicurano che i cani usati per la realizzazione del film non sono rimasti feriti, ma alcune situazioni estreme costringono a chiedersi fino a che punto possa arrivare il trucco cinematografico.
Dopo un anno trascorso tra ghiaccio e neve, affamati ed esposti a pericoli continui e di varia natura, sepolti per il crollo di intere montagne, il pack che si crepa risucchiandoli in acque gelide mentre orche assassine sono pronte ad afferrarli nei vortici d’acqua, stupisce che due cani riescano a sopravvivere senza inselvatichire e possano correre gioiosi incontro al vecchio padrone, senza ringhiare, in un perdono senza condizioni… è qualcosa che gli umani non possono capire.
Scena che turba e mette i brividi è vedere nel bianco paesaggio delle macchie nere che corrono all’impazzata verso il nulla, con pezzi di catena al collo.
E la commozione ha il sopravvento nell’ascoltare quegli ululati, quell’abbaiare sempre più debole, fino a diventare un guaito. Una voce fuori campo ci informa dei vari decessi.
Nel 2006 la Disney ne fece un remake: 8 AMICI DA SALVARE di Paul Walker con Paul Walker, Bruce Greenwood, Moon Bloodgood
La vicenda dell’incidente raccontato da 8 amici da salvare, Eight Below, viene spostata al 1993, l’ultimo anno di utilizzo in Antartide di cani da slitta. I protagonisti non sono più giapponesi e viene anche cambiata la razza dei cani, Alaskan malamute e Siberian husky. Per le otto figure di cani ne vennero utilizzati complessivamente una trentina, che affiancarono i protagonisti come controfigure.
La storia qui, pur essendo drammatica, ha un finale più lieto, solo due non ce la fanno, e sono sei i cani che si riescono a salvare.
Questo film non ha l’intensità e il rigore del precedente, ma risulta più leggero e scorrevole.
I cani Max, Maya, Dewey e Buck avevano recitato anche nel film Snow-dogs. 8 cani sotto zero.
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